mercoledì 7 dicembre 2011

Kovrin: la solitudine di un uomo felice.

"Ancora una volta Kovrin era convinto di essere un eletto dal Signore e un genio, gli vennero in mente tutti i discorsi che aveva fatto in passato col monaco, voleva parlare, ma il sangue gli affiorò sulla bocca e si sparse sul petto; senza pensarci Kovrin passò le mani sul petto e la camicia gli si sporcò di sangue. Voleva chiamare Varvara Nikolaevna che stava dormendo, ma pronunciò solo: - Tanja. - Cadde, puntò le mani e ripeté: - Tanja."
E' così che muore, sotto la penna di Antòn Cechov, il professor Andrej Vasilevic Kovrin: in un balcone, divorato dalla tisi, col nome della ex moglie sulle labbra.
Andrej Vasilevic, due anni prima di morire in questo modo, era un genio. "Oh no, è la mia ragione di vita", diceva a chi gli chiedesse se non si fosse per caso stancato della filosofia e delle lunghe ore che passava ogni giorno tra i suoi amati libri. Era ben voluto, stimato da tutti proprio in virtù di questa sua genialità. In particolare viveva circondato dall'affetto di due persone a lui care, che per lui, giovane orfano, avevano costituito per anni la sua famiglia: Tanja, una ragazza più giovane di lui, e il padre di Tanja, Egor Samenyc.
Egor Samenyc è un bonaccione, uno di quei simpatici vecchietti della consistenza del pane e del sapore del miele, che ha due sole grandi preoccupazioni nella vita: la figlia Tanja e gli alberi del suo giardino, uno dei più belli, noti e ricchi di tutta la Russia. E' anche lui una penna nota nel suo settore, quello della teoria del giardinaggio. Sostando per qualche tempo a casa sua, in campagna, Kovrin ha la possibilità di leggere qualcuno dei suoi libri: sono trattati polemici, di una certa forza, di una certa intensità, ma sostanzialmente dei trattati tecnici che non potrebbero mai interssare chi non sia del settore. Tanto che lo stesso Kovrin, di ben altri interessi, li abbandona dopo appena qualche pagina. Ma non importa, lo sa anche il buon vecchio Samenyc che i suoi scritti sono robaccia in confronto a quelli, filosofici, del ragazzo.
La vita così, in quella dimora di campagna, procede tranquilla, tra musica, passeggiate nel giardino e latte da bere. Kovrin si innamora di Tanja e i due si sposano, col beneplacito del padre di lei. Sono fatti l'uno per l'altra, e la stessa Tanja aveva intuito da tempo immemore che prima o poi si sarebbero sposati; senza saperlo se lo sentiva. Intuito femminile.
I problemi arrivano quando una leggenda, quella del monaco nero, si avvera. Era successo per la prima volta poco prima che Kovrin si scoprisse innamorato di Tanja. Era tutto il giorno che aveva in testa questa leggenda, che non sapeva se l'avesse appresa da qualche libro o se gliel'avessero invece raccontata. Ce l'aveva così in testa che non aveva saputo resistere e l'aveva raccontata alla ragazza, che da brava adolescente ne era rimasta anche affascinata: il riflesso di un monaco nero che, in barba ad ogni legge ottica, si riflette per tutto il mondo. Non è forse precisamente un monaco, è un viandante, perchè la leggenda dice che è in cammino; ma sembra un monaco, un monaco nero, perchè è vestito di nero.
"Sei un miraggio" dice Kovrin al monaco nero, quando gli si manifesta la prima volta.
"Pensa quello che vuoi - è la risposta - io faccio parte della tua immaginazione e la tua immaginazione è parte della natura, quindi esisto nella natura".
Kovrin è un filosofo, non uno stupido. Sa che se racconterebbe agli altri di poter parlare col monaco della leggenda, nessuno gli crederebbe. E così tace. Ma i discorsi col monaco si fanno sempre più assidui, sempre più filosofici, semre più belli e interessanti.
Kovrin quando parla col monaco è felice. E' felice e lavora, legge, studia. "Mi sembra terribilmente strano che sia felice la mattina, la sera, e che la gioia ottunda tutti gli altri sentimenti - dirà una notte proprio al monaco - Non so cosa sia la tristezza, la noia, non dormo, ma non mi annoio. Dico sul serio: mi stupisco".
Ecco dunque il primo prezzo della felicità di Kovrin: una felicità eterna. Essere un uomo innaturalmente destinato ad un solo sentimento, che per assurdo è il più desiderato da tutti: la felicità. Kovrin è felice perchè tutto attorno a lui è filosofia, la sua passione. La filosofia non è solo la sua ragione di vita, la filosofia è la sua vita. E i momenti più felici della sua vita sono quelli in cui parla di filosofia col monaco, ovvero con se stesso. Sono quei momenti il cardine della sua vita e della sua felicità; se è felice anche con gli altri, in altri momenti e se glia altri anche loro sono felici, questo è solo un riflesso. Un riflesso come lo è il monaco. Il mondo è felice perchè Kovrin è felice.
Ma un giorno gli altri si accorgono che parla col monaco, quindi con nessuno, e lo prendono per pazzo. Il lettore, con Kovrin, sa per la prima volta che Tanja e suo padre avevano già avuto sentore di questa sua pazzia: "Avevo notato da tempo che c'è qualcosa che sconvolge la tua mente. Sei malato, Andrjusa, nello spirito...".
Ma come, tutta la felicità di Kovrin e del mondo con lui? Era tutta fasulla, inesistente. Almeno in parte. E' con questa frase di Tanja, detta quasi per caso, inserita da Cechov quasi clandestina, che ci rendiamo conto di aver assistito fino a quel momento a qualcosa di simile a una recita. Non è vero, come vedevamo noi che vediamo con gli occhi del filosofo Kovrin, che tutti erano felici. Kovrin, immerso nella sua bolla di felicità, sta rimanendo solo, e non si accorge, chiuso nel suo studio tra i suoi libri e le sue teorie, che il mondo prende le distanze da lui, che il mondo comincia a considerarlo pazzo. Come non si accorge del giardino che non è più florido come un tempo e che dà ormai i suoi grattacapi, così non si accorge dell'alone di pazzia che lo sta circondando e che lo porterà alla rovina. Il lettore tenga sempre presente lo stato del giardino di papà Samenyc: come quei gingilli che cambiano colore quando cambia il tempo, così il giardino serve a Checov per predire lo stato, i cambiamenti, di Kovrin. E il giardino, tanto bello e prospero all'inizio, non fa che deperire nel corso del racconto: come Kovrin.
Con le cure mediche per farlo rinsavire, il monaco scompare e con il monaco anche la genialità del ragazzo. E' un effetto domino. Kovrin non è più felice e nessuno è più felice. Kovrin ora è nel mondo, vede il mondo da uomo, non più da filosofo, e il mondo improvvisamente non gli piace più. Il matrimonio va a rotoli, i rapporti umani si logorano, il giardino va in malora.
Quando lo ritroviamo, poco prima che muoia, Kovrin è ormai un normalissimo professore col vizio del pensiero, ma privo di ogni antica genialità. E di chi è la colpa? Lui la attribuisce agli altri, che l'hanno voluto curare, ma gli altri in fondo hanno agito per il suo bene, tanto che ora dicono che il colpevole di tutto è solo lui. Lui e basta.
"Per esempio, per avere una cattedra a quarant'anni, essere un professore, noioso, pedante, in breve per poter essere un mediocre scienziato, aveva dovuto dedicare quindici anni della sua vita allo studio, giorno e notte, sopportare il dolore di una grave malattia, avere un matrimonio sbagliato e fare tante altre meschinità e sciocchezze. Kovrin si convinse della sua mediocrità, ed era soddisfatto, perchè ogni uomo deve accontentarsi di quello che è".
Questo è l'ultimo, irriconoscibile, Kovrin. Sposato ormai a una donna che per chi legge è solo un nome, niente di più: Varvara Nikolaevna. Nulla a che vedere con la giovane Tanja, semplice quanto si voglia, ma con un suo carattere. E questo perchè anche le due donne sono lo specchio di Kovrin: la spontaneità di Tanja per il Kovrin felice, l'anonimato del nome di Varvara per il Kovrin infelice.
E sarà dunque vedendo il monaco per l'utima volta, sentendo la musica che gli ricorda Tanja e invocando il nome della ragazza; insomma, ritornando per un attimo, un illusorio attimo, l'uomo felice di qualche anno prima, che il nostro morirà. Morirà, circondato però dalla lettera accusatoria di Tanja, che gli imputa la morte del padre e il deperimento del giardino, nonchè l'infelicità sua e di tutti.
"Maledetto - gli scrive - Ti credevo un genio, straordinario, originale, ti ho amato, ma non eri altri che un folle..." Una lettera che, significativamente, Kovrin non finisce, strappa e getta dal balcone, ma che il vento gli riporta indietro e sparge tutta intorno.
Perchè l'ultimo, illusorio, attimo di felicità di Kovrin, è l'ultimo miraggio di un passato che torna per ucciderlo e di cui non può liberarsi.

Antòn Cechov, Il monaco nero, in Racconti, Orsa Maggiore Editrice, Forlì, 1993, pp. 221-256.

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