domenica 30 ottobre 2011

C'è chi fa la guardia e c'è chi latra...

Oggi si è parlato molto.
Due parole sono uscite dalle bocche dei pidiellini Maurizio Gasparri e Fabrizio Cicchitto, che hanno commentato quelle pronunciate in mattinata da Antonio Ingroia: di "animo militante" ha parlato il primo, all'"imparzialità" ha ironicamente accennato il secondo.
In pratica, dunque, questo è ciò che si rimprovera al Procuratore aggiunto della Procura distrettuale antimafia di Palermo, che al congresso di Rimini del Partito dei comunisti italiani (Pdci) si è dichiarato "partigiano della Costituzione": il fatto di essere un militante nell'animo e di pateggiare per qualcosa, di non essere appunto im-parziale, cioè non parziale.
Ebbene, va dato atto a Ingroia che imparziale lui ha proprio scelto di non definirsi: "Fra chi difende la Costituzione e chi quotidianamente cerca di violarla, violentarla, stravolgerla, so da che parte stare", ha detto. Parzialissimo dunque il nostro magistrato, protagonista negli ultimi anni del processo a Marcello Dell'Utri e di altre indagini sul rapporto tra Stato e mafia: quelle indagini che avrebbero fatto "di Ciancimino jr un'icona antimafia quando invece organizzava traffici illeciti e nascondeva tritolo in casa" (parole sempre di Gasparri).
Ci sono categorie - quelle dei giornalisti e dei magistrati su tutti - alle quali negli ultimi anni le autorità politiche chiedono sempre più proprio quel che invece Ingroia vanta di non avere: una certa serenità e pacatezza d'animo e una notevole imparzialità, l'essere insomma al di sopra delle parti.
Che ne avrebbero detto Gasparri e Cicchitto se i giornali all'epoca delle Br avessero dimostrato imparzialità e pacatezza d'animo stando a guardare dalle finestre chi vinceva l'appassionante scontro tra lo Stato e il brigatismo rosso? Cosa avrebbero detto se i molti colleghi di Ingroia avessero usato le stesse doti oggi tanto decantate, evitando così per altro un buon numero di proiettili nelle loro teste?
"Fate pure, poi guarderemo il risultato a fine partita - avrebbero dovuto dire - e ne prenderemo nota".
Come tutti gli altri si sarebbero indignati, ci si augura, anche i nostri due pidiellini.
Il fatto è che Cicchitto e Gasparri dovrebbero capire che ci sono categorie cui si deve chiedere non l'imparzialità e un animo non militante, ma semmai l'obiettività, che è una cosa ben diversa. Non di essere al di sopra delle parti, ma di parteggiare per qualcosa di giusto e basarsi sulla disamina dei fatti, di ciò che è oggettivo: cioè essere obiettivi. E' un vantaggio per tutti se giornalisti e magistrati si sentano militanti e strenui difensori - strenui, dunque affatto quieti e imparziali - di un sistema democratico e, nella fattispecie, di una Costituzione che tutto il mondo ci invidia e ci copia. Il giornalismo, si diceva una volta, dev'essere il cane da guardia della politica; la magistratura stessa nasce per difendere il popolo dall'arbitrarietà del potere da lui stesso delegato ma a lui solo appartenente, il potere appunto della politica.
In questo senso solo, dunque, si potrebbe criticare Ingroia: per aver parlato da un comizio politico, indipendentemente dal colore del comizio stesso. Ma non certo per essersi dichiarato parziale, partigiano. E per giunta partigiano della Costituzione.
Insomma: ci sono dei cani che fanno la guardia e altri, pare, che si limitano a latrare. 

Il Fatto Quotidiano,
Ingroia: “Sono un partigiano della Costituzione”. E dal Pdl parte l’attacco
articolo non firmato,
30.10.11

Il Giornale
"Ingroia si confessa dai comunisti: 'Mi sento un magistrato partigiano'".
http://www.ilgiornale.it/interni/ingroia_si_confessa_comunistiio_mi_sento_partigiano/antonio_ingroia-magistrati-partigiano-comunisti-polemica/30-10-2011/articolo-id=554434-page=0-comments=1
di Domenico Ferrara,
30.10.11

lunedì 24 ottobre 2011

Nothing to remproach ourselves for - Niente da rimproverarci.

Come sia morto l'ex Raìs libico Muammar Gheddafi, lo scorso 20 ottobre, lo sappiamo bene tutti. I video girati dai telefonini dei ribelli sono stati pubblicati in rete alla spicciolata nei giorni e persino nelle ore successive la morte, e da lì sono stati poi diramati anche dalle televisioni di tutto il mondo. Rimane ancora da capire se questa morte vada ascritta ad un proiettile vagante durante lo scontro a fuoco oppure ad una vera e propria esecuzione a sangue freddo, pistola alla tempia.
Ciò che però stupisce sono le dichiarazioni del primo ministro della difesa britannico Philip Hammond, così riportate dalle Corriere della Sera: "Il giovane governo libico capirà che la sua reputazione agli occhi della comunità internazionale è stata un po' macchiata da quanto successo".
Tutto comprensibile, se non fosse che in un'altro articolo del quotidiano milanese, a firma di Guido Olimpo, si legge: 
 "I servizi di intelligence della Nato sapevano da settimane che Muammar Gheddafi era nascosto a Sirte. E – secondo indiscrezioni della stampa britannica – tenevano d’occhio le possibili vie d’uscita. Sul terreno c’era un piccolo nucleo di Sas (Special Air Service), i commandos britannici addestrati a operare dietro le linee nemiche, che assistevano le brigate di Misurata. Al loro fianco consiglieri del Qatar, il paese arabo che più ha aiutato gli insorti. Altri dati sulla possibile presenza del Raìs – ha aggiunto il settimanale Spiegel – sarebbero arrivati dagli 007 tedeschi: avevano scoperto che il Colonnello era a Sirte ma sembra non fossero riusciti a localizzare il rifugio. Anche se, con il passare del tempo, era chiaro che c’erano pochi posti dove potesse nascondersi"
Ecco che, d'improvviso, qualcosa più non quadra. A sapere dove si trovava Gheddafi - cioè, quanto meno, a Sirte - erano quelli della Nato, gli inglesi, i rinforzi del Quatar e persino l'intelligence tedesca. E' vero che in guerra due più due non fa sempre necessariamente quattro, ma risulta alquanto poco credibile che i primi a stanare il leader lealista siano stati i ribelli, impantanati da settimane anche a Bani Walid.
Attenzione, nessuno mette in dubbio che il defunto rivoluzionario verde sia stato ucciso da mano ribelle, vuoi per caso, vuoi per precisa intenzione. Ma chi è stato ad indirizzare sul posto giusto e al momento giusto quella mano? Ce lo spieghi pure il signor Hammond, se lo sa. 

"Migliaia a Bengasi: "La Libia è libera". Autopsia sul Raìs, spoglie ai parenti", Corriere della Sera, Redazione On line. http://www.corriere.it/esteri/11_ottobre_23/gheddafi-autopsia-sepoltura-giallo_e5f85826-fd4f-11e0-aa26-262e70cd401e.shtml

"Il Raìs a Sirte, gli 007 sapevano", Corriere della Sera, Guido Olimpo. http://www.corriere.it/esteri/11_ottobre_23/nato-007-gheddafi-olimpio_47f79ed8-fd64-11e0-aa26-262e70cd401e.shtml

giovedì 20 ottobre 2011

Sic transit gloria mundi?

 (Sirte, 7 giugno 1942 - Sirte, 20 ottobre 2011)


Dunque è finita. Gheddafi è caduto. Ci aspetta e ci aspettiamo una nuova Libia, pacificata e democratica.
E se invece fosse appena iniziata? Morto Gheddafi, le diverse anime del Cnt riusciranno a convivere? E per quanto? E siamo sicuri che le tribù fedeli al defunto raìs abbiano già riconsciuto una nuova Libia non gheddafiana? Perchè Gheddafi non lo resusciterà nessuno, siamo d'accordo, ma in ultima analisi amici e nemici non potranno non riconoscergli di aver difeso la sua terra, come diceva nei suoi messaggi audio degli ultimi tempi - "fino alla morte".
E la morte è arrivata, in tarda mattinata, primo pomeriggio. Non è ancora chiaro se sia morto in un conflitto a fuoco o, come dice di un ragazzo assumendosi la paternità del gesto, col cervello trapanato da un colpo di pistola.
Parliamoci chiaro; oggi le televisioni ce lo dipingono come un tiranno sanguinario, come il capo di uno stato di polizia. Certamente Muammar Gheddafi fu anche quello. E andava bene a tutti, quanto meno a molti. Ma fu anche per un certo periodo - non neghiamolo - una persona che il mondo guardò con interesse, quando tinse di verde la Libia con quella sua rivoluzione dai toni socialisteggianti, fatta, raccontano le cronache, senza sparare un colpo. Ci fu un periodo in cui la rivoluzione verde, l'ennesima fallita, significò qualcosa per qualcuno. E ora non dovremmo fare finta di dimenticarlo quando plaudiamo - giustamente! - alla vittoria dei ribelli sul tiranno, quando guardiamo i video del suo cadavere.
La rivoluzione verde è da oggi un buio passato da dimenticare. Il Cnt promette un futuro radioso. Lo speriamo tutti. Tutti speriamo in una Libia nuova, libera e democratica, non più verde. Ma attenti a non cercare questa Libia nell'immediato domani, perchè Gheddafi è morto coi suoi nella sua città natale, Sirte. E questo, c'è da pensarlo, molti non lo dimenticheranno così facilmente.

martedì 4 ottobre 2011

L'Africa di Pietro Veronese.

Si conclude con un "Elogio degli Africani" il libro di reportages di Pietro Veronese, Africa reportages (Laterza, Roma-Bari, 1999). Un elogio che ha però poco di scontato e di stereotipato e che fa correre un brivido lungo la schiena quando inizia con quella frase: "Un giorno o l'altro bisognerà liberarsi di tanta correttezza politica, di tanto perbenismo intellettuale, e osare dire come uno la pensa veramente. No, gli uomini non sono tutti uguali; sì, le razze esistono, e si dividono in inferiori e superiori. E superiore a tutte - scrive Veronese - è l'africana" (p. 173).
Il libro comincia ormai a essere datato. Ha quasi tredici primavere sulle spalle, e in tredici anni di cose in Africa ne sono cambiate. La Libia, uno dei Paesi assenti dalle pagine di questo libro, è in guerra da parecchi mesi e Gheddafi sempre lì lì per cadere; il Sudan, invece molto presente, da gennaio si è scisso nei due Paesi indipendenti del Sudan e del Sud Sudan.
Di molti altri Stati sarebbe difficile dire: "l'Africa - come scrive nella premessa al testo lo stesso Veronese - non è trascurata soltanto da flussi di capitali, dai grandi investimenti, dalle rotte commerciali, dalle agenzie turistiche (se si escludono le mete canoniche); lo è anche dai giornali" (p. IX).
Cosa quindi sia avvenuto in tredici anni in Kenya, Congo, Sud Africa, Ruanda, Eritrea, Etiopia, Angola, Burkina Faso, Zimbabwe, Mozambico, rimane difficile dirlo con precisione, grazie anche ad un sistema mediatico che, per lo meno nei suoi organi di diffusione di massa, fatica parecchio a renderne conto. E' sotto gli occhi di tutti come persino le notizie sulla Libia, presenti in ogni foglio di giornale fino a qualche settimana fa, abbiano smesso di occupare le prime pagine da quando la guerra si è arenata in quel di Bani Walid e di Sirte e da quando si sono concluse le rapide visite dei governi francese e inglese a Tripoli. Fino a che non sarà preso Gheddafi, aspettiamoci al massimo una serie infinita di dispacci d'agenzia.
E' per questo che, anche dopo tredici anni, libri come questo di Veronese dovrebbero continuare a essere letti con lo stesso interesse: perchè ci dicono su certi luoghi tutto ciò che i giornali, l'informazione quotidiana, per una serie di motivi anche strutturali non riescono a dirci.
Perchè l'Africa di Veronese non è solo l'Africa afflitta dalle grandi guerre, di cui pure scrive e che lasciano evidenti segni nel paesaggio delle città e nella vita delle comunità. Camion bruciati e abbandonati, vecchie armi sovietiche lasciate lungo una scarpata, cadaveri di combattenti, sono tutte immagini che ricorrono con una certa regolarità nel libro, così come nelle esperienze del reporter romano. L'Africa di Veronese è però anche e soprattutto l'Africa dei campi dei profughi e delle vittime innocenti di questi conflitti, l'Africa dei bambini e delle donne che muoiono di fame, delle studentesse uccise nelle scuole; l'Africa dei volontari che cercano di curare i malati di Aids, malattia ancora troppo poco conosciuta e prevenuta in molte zone del continente. Accanto dunque a figure di capi militari, martiri dell'idea e politici dell'ideologia, sono queste le figure del miglior Veronese. Un autobus che sprofonda in una buca e rompe alcune tubature dell'acqua, le donne che ridendo accorrono coi secchi:  tutto questo vale come o più del racconto di una guerra.
Perchè l'Africa di Veronese è anche l'Africa delle piccole avventure quotidiane, della felicità provocata da una tubatura rotta. C'è da immaginare, adesso come tredici anni fa.

Il libro:
Pietro Veronese, Africa reportages, Laterza, Roma-Bari, 1999.