martedì 14 dicembre 2010

Il berlusconismo strutturale della Seconda Repubblica.

La fiducia è stata oggi data, dopo tanto brusio, al governo Berlusconi: che sembrava lì lì per cadere, che sembrava a tutti i suoi detrattori ormai spacciato, e invece è ancora lì. Come volevasi dimostrare.
Non voglio entrare al momento nel merito della questione della durata di un governo che comunque mi sembra ormai ben poco credibile, ammesso che la mancanza di credibilità possa effettivamente minarne le basi; il punto di questo mio intervento sarà un altro.
Mi sembra che la giornata di oggi possa dirsi emblematica della situazione politico-culturale dell'Italia di oggi, della situazione nella quale essa si ritrovi dopo più di dieci anni, una quindicina, di berlusconismo.
Guardando di sfuggita, nel pomeriggio, i servizi di un telegiornale del tutto filoberlusconiano come il Tg5, si è vista una piazza blindata (quella dov'erano riuniti i rappresentanti politici a discutere la concessione della fiducia) e, al di là delle camionette della polizia e degli agenti in tenuta antisommossa, una folla di manifestanti più o meno eterogenea (da Rifondazione comunista ai ragazzi dei centri sociali a semplici studenti universitari al cosiddetto "popolo viola") che contestava il governo auspicandone ovviamente la caduta. Tra tutti costoro una minoranza ha creato dei disordini e su questa minoranza si è concentrata la cronaca del Tg Mediaset, che ha deciso per lo più di sorvolare sui motivi della contestazione: evidentemente non risultavano propizi a creare nel telespettatore quel sentimento di indignazione e disapprovazione verso i manifestanti stessi.
Sarebbe appunto un errore, a mio avviso, pensare che l'Italia sia quella scesa in piazza oggi pomeriggio, ed è un errore che purtroppo vedo ripetersi puntualmente nei giornali più o meno orientati a sinistra, sicuramente nel comunista "Il Manifesto", ogni qual volta la gente scende in piazza.
Indicare questi manifestanti come "l'Italia", o magari "l'Italia vera" è un semplice e magari ingenuo, sincero persino, artificio retorico utile a confortare chi la pensa come i manifestanti, ma improbabilmente veritiero alla conta dei fatti.
Il problema dell'Italia di oggi è che questa non è "l'Italia", o "l'Italia vera", ma una parte, non so nemmeno quanto vasta (poco, temo) dell'Italia contemporanea.
Vogliamo chiamarla l'Italia sana, l'Italia che ancora reagisce, l'Italia che ancora vive? Sicuramente: chiamiamola pure così.
Ma l'onesto pensatore non può fare a meno di notare un'Italia meno visibile, ma più grande e altrettanto drammaticamente vera, che non necessariamente ritiene Berlusconi un grande uomo politico, o l'uomo della salvezza, della rinascita del Paese, ma semplicemente un politico come tanti altri che però ha il merito di riuscire a tenere le redini di un partito e di far credere che lui sia l'uomo della provvidenza.
Questa Italia è l'Italia che non vuole nuove elezioni perchè "costano, in un momento di crisi come questo, e quindi si continui pure così".
Questa Italia è l'Italia che va a sbandierare in giro che "tanto uno vale l'altro, quindi si continui pure così".
Questa Italia è l'Italia che si diverte con Grillo a svuotare le impurità del suo stomaco mandando a 'fanculo questo o quel politico, e poi finito tutto si tira lo sciacquone del water.
Peccato che rimanga tutto così.
Questa è l'Italia a cui, in definitiva, è stato insegnato, nelle più varie forme, il distacco dalla politica. E' l'Italia serva e burocratica, che nonostante lamentele di facciata, rimane per paura del cambiamento attaccata a questa politica come un pesce spazzino al corpo di uno squalo.
Aveva ragione Max Weber quando vedeva nella burocrazia il male del secolo che allora lui vedeva sorgere, il '900.
Il problema dell'Italia di oggi non è Berlusconi. Il problema dell'Italia di oggi è il berlusconismo!
Berlusconi, inutile negarlo, ha cambiato in quindici anni il modo di fare politica dentro il "palazzo" (questo termine che ultimamente va tanto di moda anche all'interno dello stesso Pdl), ma anche i rapporti tra il "palazzo" centro del potere e la folla che abita le casupole di paglia nel suo circondario.
Certo, Berlusconi non nasce dal niente, come qualunque personaggio storico.
E' stato aiutato in questo, credo, da una serie di contingenze: la fine della Prima Repubblica e dei partiti di massa, la caduta del muro di Berlino, il craxismo.
I primi due ci hanno fatto credere alla morte delle ideologie, in particolare di quella sociale: il comunismo. L'Urss che si sgretolava (mediaticamente parlando) sotto i picconi dei berlinesi; i partiti storici nati dalla Resistenza (quindi da un'azione collettiva) che si riducevano a poca cosa e in pratica sparivano dalla circolazione (non del tutto, ma i loro risultati elettorali erano certo incomparabili con quelli di un tempo).
"Basta con le ideologie!" ci veniva detto: da ora solo individualità. E scendeva in campo quella che sarebbe diventata l'Individualità per eccellenza, Silvio Berlusconi, allora con Forza Italia, ora con un partito molto più grande: il Pdl.
Il craxismo ha indicato a Berlusconi quale sarebbe stato il futuro della politica: quello dei partiti intesi come macchine burocratiche per conquistare voti, giganteschi carri armati che tutto travolgono in nome dei voti, svuotati da ogni ideologia inutile e identificabili solo con il loro conducente. Craxi per il Psi, all'epoca, Berlusconi per il Pdl, oggi.
Nell'89 avremmo dovuto tenere le ideologie e rigettare la burocrazia: viene da pensare che sia stato fatto il contrario.
Lo stesso Cicchitto oggi ha detto che un governo di centrodestra non presieduto da Silvio Berlusconi sarebbe semplicemente impensabile, e persino i finiani hanno pensato con grande originalità ad un Berlusconi bis. L'alternativa per il centrodestra di oggi a Berlusconi, insomma, altri non è che Berlusconi.
All'interno del "palazzo", dunque, il rapporto non è più quello di un confronto democratico delle parti sintetizzato da un portavoce (il segretario del partito, tutt'altro che assente ai tempi della Prima Repubblica), ma quello di un cortigiano con il proprio sovrano, al quale è affidata la direzione del regno, semmai con l'utilizzo di qualche consigliere (Tremonti può andar bene nel ruolo).
Ogni tanto ci si affaccia dal balcone del "palazzo" e si parla ai sudditi per convincerli che tutto va bene (era il Marchese del Grillo del mai abbastanza compianto Monicelli che gettava monete dal balcone di casa e citava Gioacchino Belli, se non ricordo male...). I sudditi si devono però prendere di pancia e di cuore, non di mente, perchè tanto c'è poco per far leva sulla mente. La maggior parte dei servizi dei telegiornali berlusconiani e dei programmi Mediaset (ma anche Rai) a questo dunque sono disposti: a preparare il terreno del sentimento irrazionale, della non ideologia, del candore politico.
"Questi facinorosi, invece di studiare guarda cosa fanno...!" avranno detto anche oggi l'impiegatuzzo o la casalinga seduti sul divano.
Qualche suddito "deviato" brontolerà e seguirà del tutto innocentemente l'agitatore di piazza di turno, Grillo o qualunque esso sia, ma poco importa: una valvola di sfogo fa sempre bene... Innocente come questa, poi!
E gli altri partiti antiberlusconiani? Siamo sicuri che siano immuni da questi aspetti del berlusconismo? Non credo. Il berlusconismo si è rivelato una malattia contagiosa. Questi partiti berlusconianamente antiberlusconiani sono la prova di quanto il germe stia covando in profondità. Sono tutti svuotati dalle ideologie, sono tutti alla caccia disperata di un leader.
L'Idv di Di Pietro, forse più di tutti. Come Berlusconi non fa parte del Pdl, ma è il Pdl, così Di Pietro non fa parte dell'Idv, ma è l'Idv.
Analogo discorso valga per l'Udc di Casini.
Il Pd ha il problema di essere il meno eterogeneo dei partiti e di non trovare un leader capace di riunirlo: non ne è stato capace prima Veltroni, non ci è riuscito poi Franceschini, non mi pare stia avendo fortuna ora Bersani. Ma già il fatto che sia alla disperata ricerca di un leader per non disgregarsi ne denuncia in pieno la berlusconianità strutturale.
La Lega Nord (berlusconiana, poi antiberlusconiana, ora di nuovo berlusconiana) è un caso a parte. Ho sempre pensato che nell'inevitabile terremoto politico postberlusconiano la Lega sarà l'unico partito a sopravvivere immutato. La Lega ha un leader carismatico (nel senso weberiano) che è Umberto Bossi e una mente di fatto che, soprattutto da qualche anno a questa parte, è Roberto Maroni. Chi vota Lega però non vota solo Bossi o Maroni, vota una - aberrante, stolta - ideologia: il leghismo.
La Lega ha appreso dal Pci e dalle riunioni del Pci come si tiene insieme un partito di massa.
L'anniversario di Pontida non è solo una ridicola e farsesca messa in scena, è di più: è un battesimo fatto con le acque pure della sorgente del Po. Sociologicamente non è una cosa di poco conto: si diventa veri leghisti dopo il battesimo di Pontida, stando lì con la camicia verde nella folla esultante, e non semplicemente votando Lega Nord in cabina elettorale; così come si diventa cristiani col battesimo e non semplicemente andando a Messa la domenica. La Lega dunque è qualcosa di più di un partito e non può dirsi strutturalmente berlusconiana, anche se appoggia Berlusconi per questioni, credo, di opportunità politica.
Questo è il berlusconismo strutturale della politica italiana della Seconda Repubblica.
Questo è quello che oggi non poteva cadere e non è caduto, al di là della fiducia.

lunedì 29 novembre 2010

Addio, Mario.

Apprendo da poco che Mario Monicelli è morto oggi, suicida, a Roma. Si è buttato dal quinto piano dell'ospedale S. Giovanni, in cui era ricoverato.
Di lui non ho visto molto, ma quel poco che ho visto, quei pochi suoi film che ho visto, mi sono rimasti dentro l'anima.
Quando lo vedevo comparire in televisione come ospite di questo o quel programma, col suo fisico asciutto, con la sua mente lucidissima nonostante l'età (aveva 95 anni), con le sue storie di vita da raccontare, con i suoi pensieri sempre acuti e mai banali, con la sua immensa cultura, quando vedevo tutto questo, mi dicevo che, sì, se si arriva così a quell'età, se fortuna vuole che si arrivi così a sfiorare il secolo di vita, così ci potrei anche stare. Altrimenti, no.
Mi dicevo che Monicelli raffigurava per me colui che vive sostenuto dalla cultura, dall'intelligenza, dall'obiettivo e dalla consapevolezza di poter dare ancora qualcosa di buono a questo mondo.
Forse avevo parlato troppo presto, forse non sapevo, forse m'ingannavo.
Forse questa consapevolezza d'un tratto gli è mancata. L'obiettivo no; voglio sperare ancora, ho bisogno di sperare ancora, che chi fa Arte questo obiettivo non possa smarrirlo mai. Ma forse, dicevo, gli è mancata la consapevolezza, e ha deciso di lasciarsi alle spalle 95 anni di vita e di genio lanciandosi nel vuoto.
Non so se quanto dico è stato vero nel suo caso.
Mi spiace solo di poter scrivere, da oggi, così:

                                                           Mario Monicelli (1915-2010)   

Arte e Storia.

Questa mia riflessione nasce da un lavoro che sto compiendo, di carattere storico e sociologico, su un episodio cruento della Resistenza altovicentina. Ma non è della Resistenza che adesso intendo parlare.
Mi è capitato tra le mani un paio di giorni fa un libro che possiedo da tempo, ma che non avevo ancora mai letto: "I racconti di Sebastopoli" di Lev Nicolaevic Tolstoj. L'opera - della quale nemmeno intendo parlare adesso, nello specifico - fu pubblicata tra il 1855 e il 1856 e si nutre in buona parte dell'esperienza biografica che lo scrittore fece sul fronte russo nella guerra di Crimea, guerra di cui il giorno della prima edizione praticamente si udivano ancora gli echi degli spari e il puzzo della polvere e dei cadaveri in decomposizione lasciati sul campo. Tolstoj aveva allora poco meno di trent'anni.
Mi è venuto da chiedermi dunque, abbinando due fatti che ovviamente nulla centrano l'uno con l'altro, che rapporto può esservi tra Arte e Storia. Cioè: può essere mai la prima trattata separatamente dalla seconda e viceversa? E ancora: può uno storico ritenere di aver ben compreso un periodo, di averlo ben analizzato, solo approfondendo anche fino al minimo dettaglio, con assoluta diligenza esaminando fino all'ultimo e minimo archivio, ma nulla sapendo dell'Arte del periodo che si fregia di conoscere? E uno studioso d'Arte può dire allo stesso modo di conoscerla senza apprendere di quell'Arte anche il contesto storico, quali avvenimenti influirono sulla vita almeno di chi la produsse?
Il mio parere è: no.
Mi pare infatti che uno storico che tralasci di conoscere l'arte di un periodo, lo faccia colpevolmente e si comporti come un giudice che guardi ai fatti senza conoscere l'animo dell'imputato (e quanti ce ne sono!), cosa l'abbia portato a compiere un'azione. Potrà essere il suo un lavoro lodevole dal punto di vista storiografico, con le sue belle date e i suoi bei nomi di re, così come lo sarà per la legge quello di suddetto giudice, ma rimarrà pur sempre un lavoro incompleto.
Anche un critico d'arte che non consideri la storia mi parrà scrutare un fantasma senza corpo.
Come potrà uno storico pretendere di conoscere realmente la guerra di Crimea senza leggere quanto ne scrisse Tolstoj in forma di racconto, che vi partecipò?
Come potrà realmente pretendere di capire i "Racconti di Sebastopoli" un critico letterario che non conosca bene la guerra di Crimea?
Come posso pretendere io di conoscere bene la Resistenza, io che non ho letto tutto di Fenoglio, almeno di Fenoglio? E della Resistenza altovicentina, io che non ho letto nulla, assolutamente nulla, di Meneghello?
Se la Storia è un corpo, l'Arte è il suo spirito.
Così come non ha molto senso curare il corpo senza badare allo spirito, mi pare sia assolutamente folle pensare di poter curare lo spirito laddove non esiste un corpo.

domenica 28 novembre 2010

Verranno a dirvi che...

Verranno a dirvi che la storia è storia e bisogna guardare avanti.
Verranno a dirvi che la storia sta nei libri e la vita reale è altro.
Che il futuro dipende dalla seconda e non certo dalla prima.
Verranno a dirvi che chi muore o comunque soffre per un'ideologia è un illuso o è un pazzo.
Verranno a dirvi che tutto è stato un'utopia e che i tempi dell'utopia sono finiti.
Dite loro che la Storia è Storia e appunto per questo voi, al contrario di loro, sapete guardare avanti.
Dite loro che la Storia è nei libri e che appunto per questo si riflette negli uomini e nella vita reale.
Che il futuro dipende dalla seconda tanto quanto dalla prima.
Dite loro che chi muore o comunque soffre per un'ideologia è l'unico che vive veramente perchè ha un animo.
Dite loro che nulla è un'utopia e che i tempi dell'"utopia" verranno prima o poi a chiedere il conto.

sabato 27 novembre 2010

Sociologia del bar

Mi diletterò cinque minuti con un post leggero, ma le mie riflessioni su quanto dirò sono reali, nascono da esigenze ed esperienze reali.
Mi ritrovo a casa, e alla fine di questo intervento dovrò mettermi a studiare per un esame imminente, "storia del giornalismo". Avendo oggi avuto una giornata piena e avendo domani intenzione di alzarmi sul presto, ho deciso di rimanere a casa e ho rifiutato la proposta della mia comitiva per stasera: il bar.
Ecco ciò di cui intendo parlare.
Il bar in questione è un bar caratteristico di Schio, e uno dei miei preferiti: si chiama "I due mori". Non ci vado spessissimo, ma lo trovo molto stimolante.
Forse chi non è veneto potrà fraintendermi, ma nel Veneto il bar è un luogo di ritrovo molto importante, molto sentito da una buona parte della comunità giovanile. Non ci si va per ubriacarsi, come si potrebbe pensare, anzi, raramente ho visto gente veramente ubriaca in questi ritrovi: solo una volta un ragazzo che non riusciva a centrare nemmeno la porta, ma lo ricordo bene proprio perchè fu un caso isolato.
Credo che bar come "I due mori" abbiano in sè una sorta di atavica fascinazione, che mi porta a sentirmi per un po' come in un vecchio romanzo americano... Non so, mi sento un po' un personaggio di Hemingway, seduto a bere un caffè (di solito i personaggi del genio di Oak Park bevono ben altro che un macchiato, ma io sono noto proprio per questo, per questa mia mania dei caffè macchiati).
Si può dire che esista una "sociologia del bar"?
Penso di sì. Voglio dire, guardate per bene il famoso quadro di Edward Hopper, quello del 1942, "Nighthawks". Lì c'è la solita angosciosa solitudine che chiunque percepisce palesemente nei quadri di Hopper, ma non può essere un caso se artisti della penna e del colore siano stati tutti più o meno attratti da questo luogo di ritrovo che è il bar.
Entro dunque anch'io ai "Due mori". Mi siedo. Al piano di sopra, cui si accede entrando per un ingresso accanto al bancone, ci saranno di sicuro quelli della mia comitiva, che in questo momento non sanno affatto che io sono di sotto, mentalmente.
Se succede come sempre sono seduti al banco più lungo, un banco di quelli di legno pesante, vecchi, alla sinistra delle scale.
La luce è soffusa. Dietro al lungo bancone un cameriere che è stato mio compagno di classe alle superiori versa da bere e dà il resto, pochi centesimi tintinnanti.
Sono ai tavolini di fronte al bancone, mi appoggio con le spalle al muro. Sembra tutto fermo a quarant'anni fa, quell'idea di antico che...
Mi si chiede cosa voglio. Rispondo "un macchiato".
Guardandomi intorno vedo che il bar è pieno di vita, di vita quieta, di vita che entra per dimenticarsi i dolori e gli affanni, di vita che si concede una pausa. Ragazzi e ragazze parlano tra di loro. Alcuni visi sono noti, altri no, altri forse ma non ricordo perchè.
C'è una ragazza, bellissima, di cui vedo il viso riflesso nello specchio mentre porto alle labbra il mio caffè. Dimenticavo lo zucchero, miseria. Strappo la bustina e lo osservo mentre affonda disperatamente nel caffè, nel bianco spumoso del latte.
Gli occhi ritornano quasi da soli a quella ragazza. Lo specchio riflette ancora pietosamente il suo caldo sorriso, anche se la marca di una birra che qualcuno vi ha impresso sopra per pubblicità mi impedisce di vedere bene i suoi occhi.
E' di spalle e sta parlando con un ragazzo.
Ha una cascata di bellissimi riccioli biondi, lei. La luce calda di una lampada a muro, di quelle a ventaglio, forse ne altera vagamente il colore, o forse è impressione mia che sono lì solo con gli occhi della mente.
Ma mi pare bellissima.
Troppo bella per dirlo a parole, in realtà.
Mi pare una che ho conosciuto anni fa.
Deduco i suoi sentimenti dalle espressioni di lui. Ora ride, ora la fissa pietoso, ora la consola prendendole la mano. Immagino sia una mano minuta, di quelle bianche, dalla pelle bianchissima, che trema un po' di più.
Vedo che si baciano timidamente, e la mano del ragazzo scorre delicatamente sulla guancia di lei, ed è come se quella mano fosse la mia ma non è la mia.
Distolgo lo sguardo come per pudore.
A lato una bruna si piega in due dalle risate e mette in mostra un seno generoso. Qualcuno deve averle fatto uno scherzo o accennato una battuta.
Mi rivolto e la porta dell'entrata oscilla. Gli sgabelli sono vuoti, dietro la marca della birra c'è la mia solitudine.
A volte è bella anche lei, la mia solitudine, a volte meno.
Il bar forse serve a questo: a farcela guardare riflessa in uno specchio.  

venerdì 26 novembre 2010

Perchè "Variae aetates" e finalità di questo blog.

Come mio primo intervento sul blog mi sembra giusto dare ragione del titolo ai miei quattro lettori.
Ho scelto di chiamare questo mio spazio "Variae aetates" perchè l'espressione (in latino: "diverse età", ma anche "diverse ere" se non ci si riferisce all'uomo ma al mondo) si presta ad un gioco di parole col plurale del sostantivo "varietas": "varietates", che può significare "sfumature". Questo gioco di parole mi pare condensi nel migliore dei modi il mio concetto di cultura, che cercherò di spiegare meglio nei miei futuri interventi. Cultura è infatti, a mio modo di vedere, saper indagare tutte le sfumature del comportamento umano attraverso la storia e il pensiero dell'uomo, che è in continua evoluzione. Da qui la necessità, di cui sono convintissimo, della conoscenza della storia, della filosofia e dell'arte del passato per capire il mondo moderno, l'uomo moderno.
Purtroppo credo che la scuola non ci aiuti in questo: troppo spesso la cultura è svilita tra i banchi di scuola ad un mero voto ottenuto per essere promosso alla classe successiva. Così si creano studenti e non uomini.
Avrò modo di approfondire il concetto in futuro con altri interventi.
In questo mio blog vorrei occuparmi, secondo quanto gli studi me ne lasceranno il tempo e la possibilità, del nostro passato così come del nostro presente, perchè sono convinto che il secondo sia inconoscibile in mancanza del primo e il primo inutile se non è finalizzato al secondo.
Come fare lo vedrò strada facendo; presuppongo con articoli di varia natura o semplicemente esprimendo il mio pensiero su ciò che più mi colpisce, compresi gli aspetti della vita quotidiana.
Ringrazio fin da ora quanti vorranno seguirmi e consigliarmi per un blog sempre migliore.