giovedì 20 gennaio 2011

Articolo di Immanuel Wallerstein.

Ancora una volta senza avere il tempo di commentarlo, propongo al lettore questo bell'articolo di Immanuel Wallerstein dalle pagine del "Manifesto".
Mi rendo conto che tutti gli articoli citati fino ad adesso li ho presi dal "Manifesto", e giusta, giustissima, non può che essere l'obiezione di chi mi dirà che non si può credere di fare informazione, dell'informazione corretta, solo citando giornali ai quali si è ideologicamente vicini; bisogna anche vedere cosa dicono gli altri, confrontrare e trarre le somme.
Giustissimo.
A mia difesa dirò solo che, me ne spiace, ma in questo periodo è già molto se riesco di tanto in tanto a dare un'occhiata ad un giornale nel quale mi riconosco.
Rimedierò, lo prometto, non appena il tempo me lo consentirà.
Intanto ecco il link:
http://www.ilmanifesto.it/archivi/fuoripagina/anno/2011/mese/01/articolo/4025/

sabato 8 gennaio 2011

Due articoli di Giuliano Battiston.

Sottopongo all'attenzione del volenteroso lettore due articoli, entrambi a firma di Giuliano Battiston. Spero di trovare il tempo di commentarli.

1. Giuliano Battiston, "La guerra quotidiana sulla strada per Kabul".
http://www.ilmanifesto.it/archivi/fuoripagina/anno/2011/mese/01/articolo/3959/

2. Giuliano Battiston, "Dissidente per principio".
http://blog.altriarabi.it/2009/05/17/dissidente-per-principio/

Buona lettura.

giovedì 6 gennaio 2011

Sul sentimento nazionalistico.

Vorrei realizzare adesso una piccola idea che da tempo mi vaga per la testa: quella di scrivere qualche riga a proposito del nazionalismo e del patriottismo. Dopo tutto è appena iniziato l'anno in cui il Bel Paese ricorderà le 150 primavere della sua unità. Come al solito mi baso su idee personali e non su studi specifici che, sebbene d'uopo, uno studente universitario che voglia acculturarsi non ha certo il tempo di intraprendere. So comunque che è un tema su cui molto è stato scritto e su cui altrettanto sarebbe opportuno leggere.
Mi pare che la vita di tutti i giorni, i commenti e i pensieri che sui fatti quotidiani sentiamo esprimere all'uomo della strada ci indichino due sensi di nazionalismo e di patriottismo. Un senso che definirei di difesa e un senso di offesa (o, se preferiamo per non creare ambiguità, di attacco).
Il patriottismo o nazionalismo di difesa mi sembra di poterlo individuare in quel moto di sdegno che coglie ognuno di noi nel momento in cui la sua terra natia, le sue origini, vengono tirate in ballo con evidente senso offensivo. Se io sentissi dire che gli Italiani, ad esempio, sono tutti sporchi o sono tutti mafiosi, avrei a risintermene, e credo a ragione. Il mio pensiero sarebbe: "Io sono Italiano e non tutti noi Italiani siamo così".
E' un nazionalismo positivo? Senza dubbio, perchè permette a più persone di sentirsi uniti sotto la comune bandiera della propria nazionalità: crea un collante.
Al contrario, il patriottismo o nazionalismo che ho chiamato di attacco: tiro in ballo la mia nazionalità per evidenziarne una presunta superiorità o offendo qualcun altro per la sua nazionalità (e la persona reagirà interpretando il suddetto nazionalismo di difesa). Espressioni anche comuni, comunissime, possono essere considerati addirittura degli stereotipi di nazionalismo d'attacco: "marocchino" per "venditore ambulante" quando non per "africano" in generale, "cinese" per "venditore di articoli da quattro soldi". Ho sentito addirittura con le mie orecchie, ma non so quanto sia poi effettivamente diffuso, "colombiana" (ovviamente solo al femminile, ma questa è un'altra questione) per "prostituta".
E' un nazionalismo positivo? Certamente no, perchè porta inevitabilmente a odio e divisione tra le genti.
Pensiamo ora al concetto di Patria, pensiamolo nel nostro caso italiano. Per Italia si intendono tutte le regioni che riempiono quella lingua di terra che si pronuncia al di sotto delle Alpi all'interno del Mediterraneo più una serie di isole limitrofe, le più grandi delle quali sono la Sicilia e la Sardegna.
Chiunque è nato all'interno di questo territorio ha il diritto di chiamarsi italiano. Chiunque? No. Almeno non secondo la versione dell'uomo della strada. Il bambino Rom (quante volte ho sentito, a propsito, usare come perfetti sinonimi Rom e Romeno!) che nasce a Roma piuttosto che a Napoli o a Torino rimane un Rom senza nazionalità, e così il figlio del "marocchino", specie se figlio di immigrati clandestini, rimarrà un "marocchino". C'è chi dà del "marocchino" anche all'ex calciatore nero dell'Inter Mario Balotelli, nonostante la carta d'identità dica che sia nato a Palermo, se non erro, e gli amici raccontino che sia cresciuto a Brescia.
Ci potrebbero essere molti altri modi di definire gli appartenenti ad una nazione, modi che vanno al di là dell'ubicazione geografica del luogo di nascita e che chiamano in ballo valori quali la religione, la storia, la cultura in senso lato. Ma dubito che l'uomo della strada la pensi così e tralascio quindi di imboccare questa via.
Ciò su cui piuttosto vorrei fermarmi a riflettere è il senso di sentirsi appartenenti ad una patria, qualsiasi essa sia, il senso del senso nazionalistico.
La storia gronda del sangue di chi è morto per la propria Patria, e il Risorgimento italiano (almeno nella sua lettura tradizionalmente più accreditata) è esempio sufficiente a fugare ogni dubbio in merito.
Ma ha senso morire, sacrificarsi per una Patria? Ha senso morire e sacrificarsi per l'Italia, per una lingua di terra? O non ha piuttosto senso morire e sacrificarsi per gli Italiani, per questi milioni di persone? E se ha senso sacrificarsi e morire per gli Italiani, io, da Italiano, non sono ugualmente chiamato a soffrire, morire, o comunque lottare per il Francese, per l'Inglese, il Romeno, il Greco, l'Americano del Nord così come del Sud, il Cinese, il Giapponese, il Thailandese, l'Egiziano, il Marocchino, il Sudanese, l'Australiano, il Neozelandese?
E questo non porta forse alla caduta stessa del nazionalismo, che diventa una costruzione solo teorica e tutta artificiale (pur tenendo presente le evidenti distinzioni culturali tra popoli, che nessuno intende qui negare)? Se io, Italiano, soffrissi o morissi per un Greco, e lui per me, avrebbe ancora senso distinguerci tra Italiani e Greci?
Che senso ha poi dunque, in tutta evidenza e franchezza, dichiararsi pronto a lottare per la propria Patria, quando la stessa la si usa impunemente come saliva da sputare in faccia ad altri ritenuti nazionalmente inferiori? Quando la si degrada addobbandola di aggettivi e di sostantivi che si reputano utilizzabili solo per lei ma non degni di qualsiasi altra Patria?
E' questo sano nazionalismo? No.
Mi sentirei orgoglioso di essere Italiano solo se io, da Italiano, fossi disposto a lottare per i diritti di un Francese, di un Russo, di un Brasiliano, di un Afghano, di un Congolese.
Mi sento orgoglioso di essere Italiano quando sento che un italiano si indigna per qualcosa che ha offeso un uomo o una donna di altra nazionalità.
Non mi sento orgoglioso, non mi sento affatto, di essere Italiano, quando sento che a Roma i rifugiati politici somali sono lasciati nella sporcizia e in quella struttura fatiscente che è ormai la loro ambasciata passano i giorni in compagnia dei topi (ne ha parlato Giuliana Sgrena sul "Manifesto" qualche giorno fa: http://blog.ilmanifesto.it/islamismo/2011/01/04/il-dramma-dei-profughi-somali/).
Finissi qui di scrivere mi si potrebbe accusare di parole vuote. Vorrei perciò rispondere ad un'ultima domanda: che farsene del proprio nazionalismo, del proprio sentimento patrio cui ciascuno di noi è stato con più o meno efficacia educato?
Usarlo nel modo corretto. Credo che il sentimento patrio possa andare bene come sentimento mediano, un sentimento che ci deve cioè aiutare, che è forse anzi necessario, a sentirci uomini e fratelli tutti; che dev'essere affrontato e superato nel nome di una più comune Patria Universale, che so perfettamente essere ad oggi lungi dal venire, dal realizzarsi. Una Patria in cui non conta essere nati qui o lì, una Patria dove conta solo indignrsi per le sofferenze altrui. Una Patria che non conosce le divisioni ma che conosce, e rispetta, le differenze, le differenze culturali.
Mi rendo conto che sembra lo scritto di un utopista, come si usano designare normalmente coloro che sperano nei cambiamenti; di un visionario; mi rendo conto che di questo sarò tacciato. Ma questo non è un argomento che si può risolvere così facilmente: è un argomento che al contrario richiede molte più considerazioni, che spero di proporre, esplicitamente o implicitamente, in futuro.
Spero solo, per ora, di aver lasciato un seme; fosse anche immaturo, che prima o poi germogli. L'idea del sentimento nazionalista e patriottico come un sentimento ambiguo, che può essere usato bene o male, e che nel caso sia usato bene deve aiutarci a superarlo, a superarlo per giungere ad un più alto e comune sentimento di fratellanza e di unità.
Per ora, non chiedo di più.    

lunedì 3 gennaio 2011

Riflessioni sulla guerra. Pròfasis o aitìa?

Qualche pensiero suscitato dalla notizia della morte in terra afghana del nostro ennesimo soldato, Matteo Miotto. Umanamente mi dispiace, senza ombra di dubbio. Pare che fosse molto sensibile alla condizione del popolo afghano e che credesse seriamente nella missione di pace cui era convinto di dare il suo onesto contributo. Credo francamente che vi siano i soldati convinti di questo (soldati italiani, inglesi, americani...) e non ho motivo per dubitare che anche Miotto fosse tra questi. Ci sarà chi va in Oriente per i soldi, ma ci sarà anche chi ci va per convinzione. E anche chi ci va per il denaro: come biasimare chi lo fa per evitare la disoccupazione? Come invece non contestare chi lo fa - ci sarà pure! - per un guadagno "semplice", che poi tanto semplice non è? Come si vede molte sono le motivazioni che possono spingere un uomo alla guerra e, giuste o sbagliate che possano sembrare, riguardano l'individualità di ciascuno.
Ciò che mi pare invece assolutamente incondivisibile è il motivo per cui gli Stati occidentali stiano prolungando oltre misura una guerra che a suo tempo si poteva anche fare a meno di condurre. E non lo dico per compiacente e modaiolo pacifismo (benchè possa dirmi certamente ostile ad ogni guerra, che è sempre dramma anche quando ha il sapore amaro dell'ultima spiaggia), ma perchè non credo che questo sia un conflitto condotto "in nome della pace e della democrazia" come spesso si sente dire, quanto piuttosto un conflitto necessario all'economia di stati che hanno proprio nel settore bellico una delle voci più ingenti dei propri bilanci. Basta un semplice ragionamento: se un governo decide di spendere per gli armamenti molto più di quanto spenda per altri settori quali l'istruzione (credo che questo avvenga di certo per l'Italia), va da sè che ogni conflitto è un'occasione propizia per utilizzare gli armamenti stessi e per sottoporli ad un continuo ricambio che ne renda necessaria l'ulteriore produzione. Da qui la continua necessità di conflitti armati lontani dalla pacifica oasi occidentale (America del Nord e Europa dell'Ovest) "in difesa - come si diceva - della democrazia". Della democrazia o dei bilanci dei produttori di armi? Al lettore l'ardua scelta.
Mi risulta che anche la Cina, la Repubblica popolare cinese, non sia esattamente un campione di democrazia, ma non ho mai visto nessuno pensare di muovere guerra contro la seconda (prima?) potenza capitalista del mondo, probabilmente molto più potente dal punto di vista bellico dei terroristi che nel 2001 con il vile attacco alle Torri Gemelle porsero la miccia della guerra all'allora presidente americano George W. Bush, che dal canto suo la accese prontamente.
Molto abilmente Polibio, il celebre storico greco del III secolo a.C., distingueva nelle sue Storie tra pròfasis e aitìa, ovvero tra "pretesto" e "causa reale". Bene; molto semplicemente a me sembra che la difesa della democrazia possa, in una qualche misura, essere derubricata sotto il primo sostantivo, il mantenimento economico di un settore economico assai prolifico, quello appunto degli armamenti, sotto il secondo. Non perchè un'eventuale minaccia politica organizzata di matrice fondamentalista non sia temibile, ma perchè per il momento questa non è effettivamente presente, se non a livello, credo, embrionale e criminale.
Il terrorismo islamico, come ogni tipo di terrorismo, deve essere controllato e battuto, anche in virtù della stessa grande maggioranza islamica, che terrorista certo non è. Per battere le cellule criminali terroristiche islamiche sarebbero serviti attacchi mirati e, soprattutto, l'isolamento delle stesse dal resto della popolazione afghana o iraquena. E questo isolamento si sarebbe senz'altro avuto attraverso una vera politica di assistenza programmata e mirata, di aiuto economico alle popolazioni e attraverso la creazione di un governo forte e competitivo, quale non mi pare essere quello, in Afghanistan, di Karzai. Bombardando indiscriminatamente, costringendo la gioventù all'emigrazione (spesso clandestina) si crea presso la popolazione locale un sentimento di resistenza e di ostilità che va necessariamente a ingrossare le file del terrorismo islamico, facendone evidentemente il gioco; perchè per resistere alle armi ci vogliono - è elementare - le armi, che sono in mano ai talebani.
Si crea quindi un circolo vizioso a cui probabilmente non si intende porre fine, e di cui fa le spese, in termini drammatici di vite, chi in quella guerra si ritrova perchè ci è nato e cresciuto e chi, come Miotto, ci entra nel tentativo, impossibile, di porvi fine.