lunedì 11 aprile 2011

Il suo sguardo andava lontano.

Un manto verde le cade lungo i fianchi, la ricopre tutta, la fascia, ne modella le forme generose. Quasi ogni giorno ci vediamo sempre allo stesso punto; io esco di casa, arrivo, e lei è lì. Mi aspetta, paziente, placida, lo sguardo nel vuoto. Sembra mi sorpassi, quello sguardo, sembra vaghi nell'infinito, verso mete ignote, ma è sempre lì che mi aspetta. Io in silenzio mi accosto, e lei rimane ferma. La guardo, la guardo tutta, ne scruto avidamente ogni curva, ogni suo statico movimento, e ogni volta ne rimango estasiato. Le tendo la mano, come uno stupido. Ha una cicatrice, sul petto, che il manto verde non riesce a nascondere. Non ho mai saputo chi gliel'ha fatta e perchè, ma da che la ricordo io, c'è sempre stata. Ogni tanto guardare quella cicatrice mi intristisce, quasi mi si velano gli occhi di lacrime, e forse lei lo sa. Ci frequentiamo da troppo perchè lei non lo sappia. Ma quella cicatrice è in qualche modo parte di lei, e se il suo petto non l'avesse per me non sarebbe più la stessa cosa; forse arriverei addirittura a distogliere lo sguardo, a subirne la sparizione come un affronto; un affronto nei miei confronti, nei confronti della mia memoria.
Ci sono cose che non si sopportano, che non devono sparire mai.
Una volta le ho detto, come uno stupido amante innamorato, che se mai me ne fossi andato da Schio, l'avrei fotografata e quella foto, quella cicatrice, sarebbe rimasta sempre con me, ovunque me ne fossi andato. L'avrei tirta fuori dal portafoglio e l'avrei guardata la sera prima di andare a letto: lei, così bella, tutta ammantata di verde. E forse le avrei anche suonato una serenata senza strumenti, solo nella mia testa.
"Chissà quali altri cieli mi scorreranno sopra la testa..." le dissi una volta passeggiando lentamente. Incrociavo il suo sguardo e con lui andavo lontano.
La bellezza delle montagne è questa: lo sguardo. Esseri enormi, regalmente posati e immobili da milioni di anni. Hanno visto morire intere generazioni di uomini e di animali mentre loro rimanevano sempre là, condannate a sopravvivere sempre a tutti. A tutto e a tutti. Su di loro hanno sentito passare contadini, orsi, lupi, banditi, partigiani, eroi e delinquenti; qualcuna, si dice, pure gli elefanti. Ma nulla le smuove, nulla può smuoverle. E contrappunto di questa loro immutabile fissità è appunto lo sguardo, che dalla cima spazia chilometri e chilometri d'infinito, raggiunge ciò che nemmeno un'aquila può vedere.
E' questo che mi spinge a viaggiare, altro che invece me lo impedisce. E' questo che mi ha sempre spinto a viaggiare, pur dovendo rimanere fermo per necessità, o per vigliaccheria: lo sguardo delle montagne.
E' questo, lo sguardo delle montagne, che mi ha indotto sulla strada del giornalismo, e, spero un giorno, del reportage.
La mia montagna ammantata di verde e con la cicatrice sul petto si chiama Summano. Non è un nome molto femminile, ma io la amo. La si riconosce perchè è sormontata da un'enorme croce. Io la riconosco dallo sguardo. E non siamo poi in molti a vederlo.
Cosa vuol dire essere giornalisti? Me lo sono chiesto spesso in questi giorni, e quando io mi faccio troppe domande è che tira aria di crisi. Per stare in piedi in qualche modo mi drogo di domande, di letture e di conoscenza. Lo sguardo della montagna mi ha indicato la via: guardare lontano, dall'alto.
Credo che si può essere giornalisti in due modi. Tutti e due sono utili, ciascuno a modo suo, ma a me ne interessa veramente uno solo. L'altro sarebbe per me un surrogato, non lo tollererei. Forse all'inizio, ma non di più.
Si può essere giornalisti al computer. Anche quello serve a capire il mondo. Forse hai anche più agio di capirlo, più tempo per rifletterci sopra, forse.
Oppure si può essere giornalisti viaggiando. Ascoltando la gente importante e gli inutili straccioni, chi odora di profumo e chi di sudore, chi ha l'alito che sa di champagne e chi di Tavernello. Guardando le speziature del mondo, le sue varietà. Sentendo caldo, freddo, piacere e paura con chi divide la tua giornata. Certo, immagino sia una faticaccia, e non sono così sciocco da pensare che sia tutto bello. Arriverà anche il momento in cui non vorresti vedere nessuno se non chi ti anneghi nel bicchiere una pillola per l'emicranea, e invece devi girare e vedere.
Cose a cui si deve rinunciare, o almeno che non si possono più vivere in modo, diciamo così, classico? La famiglia; l'amore; gli amici; le radici. Rinunciarci del tutto sarebbe da folli, a meno che uno non le abbia già perse, tutte queste cose, per conto suo. Ma sicuramente le si deve vivere in modo diverso. Perchè quando giri, giri, e se quando giri una farfalla sbatte le ali a New York, tu a Pechino non puoi che fottertene le palle, perchè hai altro da fare. Magari neanche lo verrai mai a sapere della farfalla e delle sue ali. Mi si scusi la grettezza, ma è così.
Io che mai ho girato ma che tanto vorrei girare (una gita in Grecia in quinta superiore non fa quasi testo), non ho avuto, fino ad ora, che una possibilità: girare con la mente. E il mio biglietto per l'ignoto sono stati i libri. Ne ho letti tanti, qualche decina solo l'anno scorso. Ma alcuni mi hanno formato più di altri:
Jack London, Martin Eden.
Ernesto "Che" Guevara, Latinoamericana, un diario per un viaggio in motocicletta.
Boris Pasternak, Il dottor Zivago.
Ignazio Silone, Fontamara.
John Steibeck, Uomini e topi.
Molti altri sono i libri che mi sono piaciuti, anche molto, ma se dovessi limitarmi al massimo, metterei questi cinque. Gli altri cercherei di averli clandestinamente, o li suggerirei a voce.
C'è anche una donna che mi ha messo in viaggio, ma di cui non parlerò, nè ora nè mai. Riccioli e labbra che non farei che baciare. Tuttora.
Questi libri credo dovrebbe leggerli ogni giornalista, o almeno ogni aspirante giornalista. Quando mi si chiede perchè, rispondo che da questi libri, o da libri come questi, passa ciò di cui un giornalista dovrebbe occuparsi, ciò che dovrebbe conoscere e quanto dovrebbe tenere sempre presente.
Da questi libri passa il viaggio, la fatica di scrivere, la pena di raccontare, la sofferenza di vivere, il legame dell'amicizia, la sopraffazione, il riscatto, la miseria, la distruzione, il coraggio, la forza, la volonà: la vita.
Lascio che il mio lettore sedimenti dentro di sè quanto ho detto, e ne faccia ciò che vuole.
Continuerò, ma per ora è meglio che mi fermi.