domenica 8 aprile 2012

Aveva disegnato un occhio meraviglioso in un foglio appeso nell'atelier di Francesco... - Venerdì 06.04.12, parte prima.

La mattina dopo mi sarei alzato con una stella rossa timbrata sulla mano sinistra e qualche ora di sonno arretrato sulle palpebre. Ma era stata una serata bellissima e mi era venuta una voglia pazza di scriverci su qualcosa. Alle tre di notte mi ero messo seduto sul letto e avevo riempito di frasi sconnesse due o tre pagine di taccuino, fitte fitte: le parole mi sgorgavano come lava, sembrava che nel centro del mio cervello si fosse creata una voragine e tutte queste cose, queste parole, immagini bellissime uscissero fuori da un barile inesauribile di vino, sangue e vita. Da una ferita dell'anima mi veniva fuori tutto. E forse era perchè la mia anima era così, come una vecchia giovane ubriaca di vita che quando non ne poteva più vomitava via tutto, e il vomito o stavi lì a raccoglierlo o te lo perdevi per sempre. E quando te lo perdevi, beh, potevi frignare per l'eternità: era perso. Quindi io raccoglievo, la cosa era troppo buona e la vita troppo preziosa per non raccogliere. Tutto quello scrivere, era la mia sigaretta accesa dopo l'amore e dopo il "T'è piaciuto?, Sì".
Si era detto una pizza dopo l'aperitivo alle otto, otto e mezza. Ero arrivato con un certo anticipo perchè sapevo che c'erano delle ragazze e le ragazze odiano aspettare. Non ricordo se avevo messo il profumo buono nuovo, ma ero arrivato con anticipo per non fare la solita figura da trasandato scrittore di romanzi erotici alla Apollinaire quando era un giovane squattrinato della gioventù squattrinata francese. Non mi era servito a molto, va detto, e molti metterebbero qui una parola diversa anche piuttosto a ragione, perchè Moreno si era dimenticato la patente a Padova e mi aveva chiesto via telefono se potevo passare a prenderlo in auto, se no non poteva venire. Fu così che mi bruciai l'anticipo sull'asfalto della strada fino a casa di Moreno. A quel punto non pensai più al profumo e mi accontentai di arrivare per la pizza subito dopo l'aperitivo, ma mi sentivo felice di andare a prendere un amico in macchina perchè così mi sentivo sempre quando ero sulla strada dopo aver letto Jack. Al ritorno beccammo una processione alla fine della Maranese e quando vidi che era troppo lunga per aspettarla lì fermi mentre gli altri già forse mangiavano la pizza, me ne fregai definitivamente del profumo e feci inversione e poi alla rotonda mi infilai sulla destra per raggiungere il punto in cui dovevamo vederci.
In pizzeria non c'erano, erano ancora al bar. Li trovammo lì, Francesco e le altre due ragazze, che sorseggiavano qualcosa che mi sembrò uno spritz. Mi presentai anche se una l'avevo già vista alla mia laurea, mia e di Francesco. Non so se erano le gambe lunghe di Martina, ma mi sentii arrossire. Ma non credo, non potevano essere le gambe lunghe, perchè non mi era mai capitato di arrossire per quello prima di allora e non potevo certo cominciare allora. Sarà stata la vita che mi sgorgava dentro che nemmeno me ne accorgevo, fatto sta che io ero davvero calmissimo e non arrossivo per quello; forse nessuno mi vedeva arrossire, ma io mi sentivo le guance calde ed ero calmissimo. Strana sensazione.
L'altra si chiamava Lorenza.
Gli altri ci raggiunsero in pizzeria. In pizzeria entrammo io, Moreno, Francesco, Martina e Lorenza, più Marco, che era un tipo singolare con la barba lunga da filosofo e il vestito elegante. Mi sembra lo abbia giustificato con qualcosa del tipo che in certi posti si va vestiti eleganti, ma era sull'ironico e dopo una risata non pensai più al senso preciso di quelle parole per il resto della serata.
In pizzeria vennero anche Erica e un'altra ragazza di cui ancora non conosco il nome; aveva appena concluso gli allenamenti di pallavolo ed era molto stanca. Potrebbe anche essere che non abbia mangiato niente.
Era la pizza degli artisti di Marano, una pizza ufficiosa perchè l'ufficiale non si sapeva nemmeno quando e dove l'avrebbero fatta, o almeno io non lo sapevo; e in ogni caso era già divertente così, quindi non pensai più nemmeno a quello.
Era tutta gente interessante, quella seduta a quel tavolo, anche se noi amici imbucati eravamo più degli artisti. Francesco e Erica erano gli artisti, e pure Marco lo era. Erica aveva disegnato un occhio meraviglioso in un foglio appeso nell'atelier di Francesco, uno solo, e mi era rimasto impresso più di tutti i suoi quadri che pure mi erano piaciuti moltissimo, perchè era uno e non era previsto che venisse fuori bello quasi come un quadro e quindi era più spontaneo di tutte le opere d'arte di quella giornata che invece erano state pensate e previste. E poi, ancora, era uno e questo lo rendeva meraviglioso. Anche lei aveva degli occhi molto belli, ma quello che aveva disegnato era bellissimo e aveva fatto bene a non disegnare l'altro. Anch'io avevo scritto qualcosa in quel foglio, ma le mie erano idiozie da incartarci il pesce o la spazzatura umida, in confronto a quell'occhio, che era occhio d'arte venuto dal nulla.
Lorenza era imbucata anche lei. Le ho chiesto qualche volta che università frequentava. Mi ha detto di essere pendolare da Venezia: una volta stava lì che aveva l'appartamento, ma ora non più. Le ho detto che era eroica, o almeno l'ho pensato.
Martina aveva orgnizzato tutto e aveva detto di portare gli amici. E infatti noi eravamo venuti. L'anno prima aveva partecipato anche lei alla mostra d'arte di Marano. Fotografava e Francesco mi aveva già parlato di una sua foto in cui si vedeva la gente riflessa in una pozzanghera. So che scrive anche poesie e che i suoi occhi sembrano scrutarti dentro quando ti guarda e ti si avvicina al volto per parlarti, soprattutto se c'è la musica alta attorno. Ma nella pizzeria la musica non c'era. Ma forse i poeti fotografi sono sempre al lavoro, soprattutto se sono poetesse.
Parlammo di arte, ricordo un discorso sulla prospettiva e sulla sua falsità, sulla percezione visiva del mondo visto con gli occhi di un pittore.
A un certo punto Marco mi chiese se mi piaceva scrivere, se scrivevo. Quando avevo detto che studiavo giornalismo Lorenza era rimasta sorpresa e affascinata, il che mi aveva fatto piacere. Capita a molti; i giornalisti di solito hanno fascino fino a che non scannano qualcuno o non scrivono piattume, come capita a molti. Hemingway aveva fatto il giornalista, ma non tutti i giornalisti sono degli Hemingway. In ogni caso tutti finiscono a far da base per la spazzatura, e i loro articoli ormai letti li vedi sempre tra le bucce di banana e di patate marce, lettiera per i topi. Va così.
Risposi che mi vedevo a scrivere romanzi. No, Dostoevskij non aveva mai scritto poesie, almeno che io sapessi. Sì, quell'altro invece aveva scritto poesie, anche se non ricordo più chi fosse quell'altro. Ma dai? No, io invece mi vedo solo a scrivere racconti, un giorno forse romanzi. In più, articoli. Sì, articoli per i topi.
Marco aveva un dito storto, lo avevo notato stringendogli la mano all'inizio.
Dopo la pizza andammo in un locale nuovo, si chiamava "La Caneva". Un locale di Torrebelvicino, subito dopo Schio. Il giorno dopo mi sarei ricordato che gl abitanti di Torre si chiamano Turritani. Ma era troppo tardi e saperlo non mi serviva più a nulla. D'altronde non mi sarebbe servito nemmeno il giorno prima, nè forse mai.

domenica 25 marzo 2012

Miei brevi pensieri da Facebook.

Chi non esce mai di casa; chi segue la vita da un divano. Chi non ha mai preso un treno; chi evita di dar retta ad un migrante. Chi non ha mai preso una cartina geografica in mano e non si è messo a fantasticare: per poi accorgersi che era storta. Chi non ha mai vissuto un sogno infranto. Chi non si sente figlio dell'Africa; chi non si è mai sentito baciare le labbra mentre pronunciava la parola "Mediterraneo". Chi non ha visto la sua vita prendere il colore degli occhi di una ragazza. Chi ha sempre pensato che la letteratura si potesse impararla dai manuali; chi non ha mai letto Jack London. Ecco, tutte queste persone sono in debito con la vita: non l'hanno vissuta abbastanza. (19.03.12, 23.37)

Schio, ore due del mattino circa. Conto quattro ubriachi, forse cinque, perdersi nelle vie deserte e scure.
Al "Leoncino" il barista paziente accompagna fuori un ragazzo dal naso da pugile: goffo, tenta di ballare una musica che l'alcool gli impedisce di capire.
Nell'odore di kebab di via Pasini due quarantenni dalla pelle solcata operaia si danno a un'esplorazione zigzagante dei grandi misteri di un paese improvvisamente nuovo: "E qua cosa c'è?" biascica uno con le narici piene di fumi orientali. Si fermano, ma poi decidono di vedere dove li condurrà la strada: ci chiedono permesso e si allontanano sempre più piccoli fino a sparire dietro l'angolo, abbracciati fratelli chapliniani, verso la stazione. Là dentro, al kebabbaro, un ragazzo si lascia andare sul tavolo coperto dalla sua giacca avana.
L'ultimo ubriaco, in "piassa dea figa", proprio accanto alla figa. Ci chiede da accendere, la ragazza che è con lui cerca di portarselo via con parole dolci. Uno di noi gli dà divertito e lui ringrazia.
Guardando attraverso la "Porta della luce" li vediamo tornare nel buio materno. (18.03.12, 12.38)

"El degheio": l'ultima sera del "Leoncino" di Schio. Mini reportage.

"Doman de sera ghe sarà el degheio!", che tradotto dal veneto significava che la sera successiva ci sarebbe stato un casino (di gente). Lo diceva con facile spirito profetico una ragazza che venerdì sera sostava insieme a molti altri in Piazzetta Garibaldi, proprio di fronte al "Leoncino". La voce correva da tempo, anche sui social networks, poi era arrivata l'ufficialità: uno dei bar più amati dai ragazzi scledensi avrebbe chiuso sabato 24 marzo. Una pagina Facebook raccoglieva un paio di giorni prima 800 adesioni all'evento. E in piazza, vi posso assicurare, il "degheio" c'era.
Se come si vocifera i problemi del "Leoncino" erano gli schiamazzi notturni che sembra infastidissero gli abitanti del centralissimo quartiere, la serata di ieri per questi dev'essere stata un inferno. Arrivando dal Duomo o da via Pasini il colpo d'occhio era inevitabile: decine di gruppi di ragazzi e ragazze, chi con una sigaretta, chi con uno spritz in mano, occupavano metà piazza. Tutti erano lì a divertirsi un'ultima volta con il Bar. Provo a entrare. Al bancone ci si arrivava a fatica in qualche minuto, facendosi largo a gomitate. Lì scopro che è finita la birra: qualcuno rimedia con un buon bicchiere di rosso. Non provo nemmeno ad arrivare fino in fondo, alla sala dei tavolini e del biliardo, c'è troppa gente. Esco. Passo davanti all'ubriaco dal naso da pugile di cui avevo scritto qualche giorno fa. E' sobrio, ma è già rosso e chiede da bere; c'è troppa gente, i camerieri non lo sentono e allora lui fa il gesto della bottiglia tracannata. Me lo lascio alle spalle sicuro di come andrà a finire la sua serata.
Sarà mezzanotte, dai piani alti del vecchio palazzo c'è chi fotografa la folla per portarsi a casa un pezzo di serata: la serata dell'addio. Cammino tra nuvolette di fumo Camel e Lucky Strike, su plastica e vetro, bicchieri e bottiglie rotte. Saluto una mia amica, la riconosco dai riccioli perchè la folla è grande. La perdo in un attimo. Mi volto prima di andarmene, un'ultima occhiata. Il gestore del bar, con la sua barba folta, porta divertito in spalla una ragazza dalle cosce tatuate: "Un urlo per il Leoncino!". Parte un applauso, non si sa più come rimetterla a terra.
Guardo un'ultima volta la scritta sull'entrata: "Leoncino Ristorante".
Mi allontano un po' più solo di prima.