lunedì 29 novembre 2010

Addio, Mario.

Apprendo da poco che Mario Monicelli è morto oggi, suicida, a Roma. Si è buttato dal quinto piano dell'ospedale S. Giovanni, in cui era ricoverato.
Di lui non ho visto molto, ma quel poco che ho visto, quei pochi suoi film che ho visto, mi sono rimasti dentro l'anima.
Quando lo vedevo comparire in televisione come ospite di questo o quel programma, col suo fisico asciutto, con la sua mente lucidissima nonostante l'età (aveva 95 anni), con le sue storie di vita da raccontare, con i suoi pensieri sempre acuti e mai banali, con la sua immensa cultura, quando vedevo tutto questo, mi dicevo che, sì, se si arriva così a quell'età, se fortuna vuole che si arrivi così a sfiorare il secolo di vita, così ci potrei anche stare. Altrimenti, no.
Mi dicevo che Monicelli raffigurava per me colui che vive sostenuto dalla cultura, dall'intelligenza, dall'obiettivo e dalla consapevolezza di poter dare ancora qualcosa di buono a questo mondo.
Forse avevo parlato troppo presto, forse non sapevo, forse m'ingannavo.
Forse questa consapevolezza d'un tratto gli è mancata. L'obiettivo no; voglio sperare ancora, ho bisogno di sperare ancora, che chi fa Arte questo obiettivo non possa smarrirlo mai. Ma forse, dicevo, gli è mancata la consapevolezza, e ha deciso di lasciarsi alle spalle 95 anni di vita e di genio lanciandosi nel vuoto.
Non so se quanto dico è stato vero nel suo caso.
Mi spiace solo di poter scrivere, da oggi, così:

                                                           Mario Monicelli (1915-2010)   

Arte e Storia.

Questa mia riflessione nasce da un lavoro che sto compiendo, di carattere storico e sociologico, su un episodio cruento della Resistenza altovicentina. Ma non è della Resistenza che adesso intendo parlare.
Mi è capitato tra le mani un paio di giorni fa un libro che possiedo da tempo, ma che non avevo ancora mai letto: "I racconti di Sebastopoli" di Lev Nicolaevic Tolstoj. L'opera - della quale nemmeno intendo parlare adesso, nello specifico - fu pubblicata tra il 1855 e il 1856 e si nutre in buona parte dell'esperienza biografica che lo scrittore fece sul fronte russo nella guerra di Crimea, guerra di cui il giorno della prima edizione praticamente si udivano ancora gli echi degli spari e il puzzo della polvere e dei cadaveri in decomposizione lasciati sul campo. Tolstoj aveva allora poco meno di trent'anni.
Mi è venuto da chiedermi dunque, abbinando due fatti che ovviamente nulla centrano l'uno con l'altro, che rapporto può esservi tra Arte e Storia. Cioè: può essere mai la prima trattata separatamente dalla seconda e viceversa? E ancora: può uno storico ritenere di aver ben compreso un periodo, di averlo ben analizzato, solo approfondendo anche fino al minimo dettaglio, con assoluta diligenza esaminando fino all'ultimo e minimo archivio, ma nulla sapendo dell'Arte del periodo che si fregia di conoscere? E uno studioso d'Arte può dire allo stesso modo di conoscerla senza apprendere di quell'Arte anche il contesto storico, quali avvenimenti influirono sulla vita almeno di chi la produsse?
Il mio parere è: no.
Mi pare infatti che uno storico che tralasci di conoscere l'arte di un periodo, lo faccia colpevolmente e si comporti come un giudice che guardi ai fatti senza conoscere l'animo dell'imputato (e quanti ce ne sono!), cosa l'abbia portato a compiere un'azione. Potrà essere il suo un lavoro lodevole dal punto di vista storiografico, con le sue belle date e i suoi bei nomi di re, così come lo sarà per la legge quello di suddetto giudice, ma rimarrà pur sempre un lavoro incompleto.
Anche un critico d'arte che non consideri la storia mi parrà scrutare un fantasma senza corpo.
Come potrà uno storico pretendere di conoscere realmente la guerra di Crimea senza leggere quanto ne scrisse Tolstoj in forma di racconto, che vi partecipò?
Come potrà realmente pretendere di capire i "Racconti di Sebastopoli" un critico letterario che non conosca bene la guerra di Crimea?
Come posso pretendere io di conoscere bene la Resistenza, io che non ho letto tutto di Fenoglio, almeno di Fenoglio? E della Resistenza altovicentina, io che non ho letto nulla, assolutamente nulla, di Meneghello?
Se la Storia è un corpo, l'Arte è il suo spirito.
Così come non ha molto senso curare il corpo senza badare allo spirito, mi pare sia assolutamente folle pensare di poter curare lo spirito laddove non esiste un corpo.

domenica 28 novembre 2010

Verranno a dirvi che...

Verranno a dirvi che la storia è storia e bisogna guardare avanti.
Verranno a dirvi che la storia sta nei libri e la vita reale è altro.
Che il futuro dipende dalla seconda e non certo dalla prima.
Verranno a dirvi che chi muore o comunque soffre per un'ideologia è un illuso o è un pazzo.
Verranno a dirvi che tutto è stato un'utopia e che i tempi dell'utopia sono finiti.
Dite loro che la Storia è Storia e appunto per questo voi, al contrario di loro, sapete guardare avanti.
Dite loro che la Storia è nei libri e che appunto per questo si riflette negli uomini e nella vita reale.
Che il futuro dipende dalla seconda tanto quanto dalla prima.
Dite loro che chi muore o comunque soffre per un'ideologia è l'unico che vive veramente perchè ha un animo.
Dite loro che nulla è un'utopia e che i tempi dell'"utopia" verranno prima o poi a chiedere il conto.

sabato 27 novembre 2010

Sociologia del bar

Mi diletterò cinque minuti con un post leggero, ma le mie riflessioni su quanto dirò sono reali, nascono da esigenze ed esperienze reali.
Mi ritrovo a casa, e alla fine di questo intervento dovrò mettermi a studiare per un esame imminente, "storia del giornalismo". Avendo oggi avuto una giornata piena e avendo domani intenzione di alzarmi sul presto, ho deciso di rimanere a casa e ho rifiutato la proposta della mia comitiva per stasera: il bar.
Ecco ciò di cui intendo parlare.
Il bar in questione è un bar caratteristico di Schio, e uno dei miei preferiti: si chiama "I due mori". Non ci vado spessissimo, ma lo trovo molto stimolante.
Forse chi non è veneto potrà fraintendermi, ma nel Veneto il bar è un luogo di ritrovo molto importante, molto sentito da una buona parte della comunità giovanile. Non ci si va per ubriacarsi, come si potrebbe pensare, anzi, raramente ho visto gente veramente ubriaca in questi ritrovi: solo una volta un ragazzo che non riusciva a centrare nemmeno la porta, ma lo ricordo bene proprio perchè fu un caso isolato.
Credo che bar come "I due mori" abbiano in sè una sorta di atavica fascinazione, che mi porta a sentirmi per un po' come in un vecchio romanzo americano... Non so, mi sento un po' un personaggio di Hemingway, seduto a bere un caffè (di solito i personaggi del genio di Oak Park bevono ben altro che un macchiato, ma io sono noto proprio per questo, per questa mia mania dei caffè macchiati).
Si può dire che esista una "sociologia del bar"?
Penso di sì. Voglio dire, guardate per bene il famoso quadro di Edward Hopper, quello del 1942, "Nighthawks". Lì c'è la solita angosciosa solitudine che chiunque percepisce palesemente nei quadri di Hopper, ma non può essere un caso se artisti della penna e del colore siano stati tutti più o meno attratti da questo luogo di ritrovo che è il bar.
Entro dunque anch'io ai "Due mori". Mi siedo. Al piano di sopra, cui si accede entrando per un ingresso accanto al bancone, ci saranno di sicuro quelli della mia comitiva, che in questo momento non sanno affatto che io sono di sotto, mentalmente.
Se succede come sempre sono seduti al banco più lungo, un banco di quelli di legno pesante, vecchi, alla sinistra delle scale.
La luce è soffusa. Dietro al lungo bancone un cameriere che è stato mio compagno di classe alle superiori versa da bere e dà il resto, pochi centesimi tintinnanti.
Sono ai tavolini di fronte al bancone, mi appoggio con le spalle al muro. Sembra tutto fermo a quarant'anni fa, quell'idea di antico che...
Mi si chiede cosa voglio. Rispondo "un macchiato".
Guardandomi intorno vedo che il bar è pieno di vita, di vita quieta, di vita che entra per dimenticarsi i dolori e gli affanni, di vita che si concede una pausa. Ragazzi e ragazze parlano tra di loro. Alcuni visi sono noti, altri no, altri forse ma non ricordo perchè.
C'è una ragazza, bellissima, di cui vedo il viso riflesso nello specchio mentre porto alle labbra il mio caffè. Dimenticavo lo zucchero, miseria. Strappo la bustina e lo osservo mentre affonda disperatamente nel caffè, nel bianco spumoso del latte.
Gli occhi ritornano quasi da soli a quella ragazza. Lo specchio riflette ancora pietosamente il suo caldo sorriso, anche se la marca di una birra che qualcuno vi ha impresso sopra per pubblicità mi impedisce di vedere bene i suoi occhi.
E' di spalle e sta parlando con un ragazzo.
Ha una cascata di bellissimi riccioli biondi, lei. La luce calda di una lampada a muro, di quelle a ventaglio, forse ne altera vagamente il colore, o forse è impressione mia che sono lì solo con gli occhi della mente.
Ma mi pare bellissima.
Troppo bella per dirlo a parole, in realtà.
Mi pare una che ho conosciuto anni fa.
Deduco i suoi sentimenti dalle espressioni di lui. Ora ride, ora la fissa pietoso, ora la consola prendendole la mano. Immagino sia una mano minuta, di quelle bianche, dalla pelle bianchissima, che trema un po' di più.
Vedo che si baciano timidamente, e la mano del ragazzo scorre delicatamente sulla guancia di lei, ed è come se quella mano fosse la mia ma non è la mia.
Distolgo lo sguardo come per pudore.
A lato una bruna si piega in due dalle risate e mette in mostra un seno generoso. Qualcuno deve averle fatto uno scherzo o accennato una battuta.
Mi rivolto e la porta dell'entrata oscilla. Gli sgabelli sono vuoti, dietro la marca della birra c'è la mia solitudine.
A volte è bella anche lei, la mia solitudine, a volte meno.
Il bar forse serve a questo: a farcela guardare riflessa in uno specchio.  

venerdì 26 novembre 2010

Perchè "Variae aetates" e finalità di questo blog.

Come mio primo intervento sul blog mi sembra giusto dare ragione del titolo ai miei quattro lettori.
Ho scelto di chiamare questo mio spazio "Variae aetates" perchè l'espressione (in latino: "diverse età", ma anche "diverse ere" se non ci si riferisce all'uomo ma al mondo) si presta ad un gioco di parole col plurale del sostantivo "varietas": "varietates", che può significare "sfumature". Questo gioco di parole mi pare condensi nel migliore dei modi il mio concetto di cultura, che cercherò di spiegare meglio nei miei futuri interventi. Cultura è infatti, a mio modo di vedere, saper indagare tutte le sfumature del comportamento umano attraverso la storia e il pensiero dell'uomo, che è in continua evoluzione. Da qui la necessità, di cui sono convintissimo, della conoscenza della storia, della filosofia e dell'arte del passato per capire il mondo moderno, l'uomo moderno.
Purtroppo credo che la scuola non ci aiuti in questo: troppo spesso la cultura è svilita tra i banchi di scuola ad un mero voto ottenuto per essere promosso alla classe successiva. Così si creano studenti e non uomini.
Avrò modo di approfondire il concetto in futuro con altri interventi.
In questo mio blog vorrei occuparmi, secondo quanto gli studi me ne lasceranno il tempo e la possibilità, del nostro passato così come del nostro presente, perchè sono convinto che il secondo sia inconoscibile in mancanza del primo e il primo inutile se non è finalizzato al secondo.
Come fare lo vedrò strada facendo; presuppongo con articoli di varia natura o semplicemente esprimendo il mio pensiero su ciò che più mi colpisce, compresi gli aspetti della vita quotidiana.
Ringrazio fin da ora quanti vorranno seguirmi e consigliarmi per un blog sempre migliore.